Produrre per sprecare? Una dicotomia dei paesi industrializzati

Cifre imponenti parlano di un fenomeno legato allo spreco di cibi nei paesi sviluppati. Lo spreco non riguarda solamente tematiche economiche e sociali, ma anche quelle energetiche. Da uno studio ENEA e Università di Bologna risulta che in Italia il 3% del consumo di energia è imputabile agli sperperi alimentari, percentuale che equivale ai consumi energetici di oltre un milione e mezzo di abitanti oppure all’85% dei consumi finali del comparto industriale di una regione come l’Emilia Romagna. L’Università di Bologna, su valori Eni, afferma che con lo spreco energetico causato dalla produzione agricola rimasta in campo (oltre 1,5 milioni di tonnellate pari al 3,2% della produzione totale) si potrebbero riscaldare per un anno 400.000 appartamenti di classe A. Quindi grandi quantità di energia sono impiegate per produrre, distribuire e cuocere alimenti, e per creare eccedenze che - seppure ancora commestibili - diventano automaticamente surplus che non viene reimpiegato.

Le cifre da capogiro sono fornite dalla FAO, secondo la quale il cibo prodotto nel mondo è stimato intorno al miliardo e trecentomila tonnellate all’anno con uno spreco del 40% già a partire dalla grande distribuzione fino ad arrivare all’uso domestico. Ogni anno in Italia ogni famiglia cestina 49 kg di alimenti per disattenzione o negligenza. Nel mondo si contano 3 milioni e mezzo di bambini sotto i 6 anni morti per cause legate alla malnutrizione. Una dissipazione di alimenti che, sempre secondo la FAO, in Europa e nel Nord America è calcolata tra  i 95 e i 115 kg all’anno a fronte di 870 milioni di persone affamate o malnutrite, 2 miliardi di persone che soffrono di carenze da micronutrienti.

Un sistema quindi quello alimentare mondiale che evidenzia come esso rappresenti un limite allo sviluppo equo e sostenibile.

Un tema centrale sta sempre più diventando quello della Dieta Mediterranea, come modello di consumo alimentare sostenibile, che oltre a rivalutare produzioni locali e stagionali, consente un minore uso di energia per la produzione, un abbattimento delle emissioni di Co2 in atmosfera per la riduzione dei trasposti su gomma poiché vige la regola del “km 0”, un contenimento degli sprechi. A questo modello sta lavorando un network internazionale che riunisce 13 paesi del bacino del Mediterraneo: Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta, Grecia, Albania, Turchia, Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto e Libano. Per l’Italia ne fa parte l’ENEA. Tutti i paesi condividono la necessità di dotarsi di strategie e di politiche di sviluppo agricole e rurali con l’obiettivo di garantire la sicurezza alimentare ai propri cittadini. Le opportunità per orientare verso un consumo e una produzione di cibi più rispettosa delle esigenze delle popolazioni sono ben presenti agli scienziati ENEA che da anni si battono per raggiungere i risultati, basta saperle cogliere e implementare.

Le massive agricolture degli anni ’80 cresciute con il concetto di sfamare i popoli, in realtà hanno dimostrato quanto il divario sia enormemente cresciuto tra coloro che possono accedere al cibo a tal punto da sprecarlo e quelli ai quali - ancora oggi - è vergognosamente precluso. Tra i principi generali da seguire: l’ottimizzazione degli input di produzione agricola ricorrendo all’agricoltura di precisione, conservativa e biologica, l’utilizzo e la valorizzazione dei residui e dei sottoprodotti dell’intera filiera agroalimentare per il recupero energetico, un più efficace utilizzo degli scarti di lavorazione delle industrie alimentari a fini energetici e per la produzione di mangimi, farmaci e cosmetici.

Accanto alla sostenibilità oggi la sfida è quella di salvaguardare la biodiversità della dieta mediterranea inserita dall’Unesco già da due anni nella lista del Patrimonio immateriale dell’umanità.

 

Andrea Segrè, Direttore Dip. Scienze e Tecnologie agro-alimentari, Università di Bologna, Presidente di “Last Minute Market”, BCFN Advisor.
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